Le Sezioni Unite sul concetto di “atti di concorrenza” nel delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza di cui all’art. 513-bis c.p – Cass., SS.UU., sent. 28 novembre 2019 (dep. 28 aprile 2020), n. 13178, Pres. Carcano, rel. De Amicis, ric. Guadagni)

By 20 Maggio 2020 Articoli

La Suprema Corte, riunita nel massimo consesso, si è pronunciata di recente sulla nozione di “atti di concorrenza” penalmente rilevanti, con una sentenza che propone un lettura moderna e costituzionalmente orientata della fattispecie in esame, coerente non solo con la ratio della norma incriminatrice, ma anche con la normativa nazionale e internazionale in tema di tutela della concorrenza.

Il ragionamento delle Sezioni Unite, infatti, muove dalla norma civilistica (l’art. 2598 c.c.) che prevede, accanto alle ipotesi tipiche di cui ai nn. 1 e 2, una clausola di chiusura, secondo la quale commette concorrenza sleale chiunque si avvalga «direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda»; tale norma, pertanto, considera rilevanti tutte le condotte lesive del principio di libera concorrenza, compresi quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano “idonei a falsare il mercato” e a consentire l’acquisizione di illegittime posizioni di vantaggio in danno di altro imprenditore.

Sulla scorta di tale premessa e richiamando il quadro normativo comunitario (artt.101,102,120 TFUE, 16 CDFUE), la Corte ritiene che la libertà di concorrenza abbia progressivamente trovato un riconoscimento costituzionale, in quanto espressione del più generale principio di libertà nell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost. e – come tale – sia suscettibile di essere garantita non solo nei confronti dello Stato, ma erga omnes.

In questa prospettiva, la repressione degli atti di concorrenza sleale si pone come garanzia di un precetto costituzionale, tale per cui l’art.513-bis c.p. è norma volta a sanzionare le condotte dell’imprenditore che siano lesive non solo del funzionamento dell’economia generalmente considerata, ma anche e soprattutto dell’altrui libertà di iniziativa economica e dell’altrui diritto a inserirsi nel mercato in condizioni di libera concorrenza.

La condotta penalmente rilevante, secondo questa impostazione, deve pertanto essere caratterizzata da due requisiti: quello della contrarietà ai canoni della correttezza professionale e quello della idoneità a danneggiare l’altrui azienda, nozione nel cui ambito la giurisprudenza civilistica ha fatto confluire una pluralità di comportamenti ulteriori rispetto a quelli espressamente contemplati nella prima parte dell’art. 2598 c.c. (dal boicottaggio economico, al c.d. dumping, allo storno dei dipendenti, alla concorrenza parassitaria, alla pubblicità menzognera, ecc.).

Immediata conseguenza di tale inquadramento, secondo il ragionamento della Suprema Corte, è che – ai fini del perfezionamento della fattispecie – non è solo necessaria la qualità di imprenditore in capo al soggetto attivo, ma serva altresì l’esistenza di un rapporto di competizione economica tra costui e il soggetto passivo: entrambi devono operare all’interno del mercato in maniera competitiva, offrendo beni o servizi destinati a soddisfare lo stesso bisogno o bisogni affini, in un’ottica appunto concorrenziale.

La tutela offerta dalla norma, pertanto, è rivolta verso <<quei comportamenti competitivi, posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell’esercizio dell’altrui libertà di concorrenza, che si prestino ad essere realizzati in forme violente o minatorie, sì da favorire o consentire l’illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell’organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva>>

La novità, rispetto alle impostazioni precedenti, consiste nel fatto che l’idoneità della condotta violenta o minacciosa ad arrecare un pregiudizio all’impresa concorrente e a pregiudicarne la libera autodeterminazione economica non è da intendersi quale dolo specifico ma quale elemento materiale del reato, con la conseguenza che il peculiare contenuto del bene giuridico tutelato impedisce di ritenere la condotta assorbita nel più grave delitto di estorsione in base al principio di specialità e il delitto di cui all’art. 513-bis c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. potranno concorrere.